Fin da piccolo ho avuto una testa che conteneva più domande che risposte, e che spesso, anzi, non era neppure in grado di capire alcune delle risposte che mi venivano fornite. Ancora oggi, ad esempio, non riesco a concepire a pieno il concetto di infinito. Per me, essere con una serie enorme di limiti e immerso in una realtà limitata e misurabile, l’idea che esista qualcosa di infinito è troppo sfuggevole. Per dire, anche il Sole e la Terra avranno una fine temporale oltre che dimensionale, come posso davvero introiettare l’idea che qualcosa non ce l’abbia?
Ma questo era (ed è) chiaramente un quesito per menti più ampie della mia, non così tutta una serie di domande più stringenti, più attinenti alla quotidianità, che mi facevo e che facevo ai miei genitori o alle persone adulte che conoscevo. Tralasciamo il concetto di divino e di religione, anche questi forse troppo complicati e comunque in realtà troppo sensibili come argomenti, e facciamo un esempio apparentemente banale, ma che da bambino non riuscivo a capire. Come si capisce quando si deve cambiare marcia quando si guida?
Certo, ora che ho la patente da un numero di anni più elevato anche di quanto mi ricordi, la domanda risulta quanto mai puerile. E non c’è neppure bisogno di guardare il tachimetro o di sentire il rumore del motore. Ormai l’abitudine di sentire l’automobile trasportarci in giro, ci ha resi quasi parte di essa e cambiare marcia è praticamente questione d’istinto. Non nego che prima di fare scuola guida, la cosa mi mettesse ancora un po’ di ansia: riuscirò a capire il momento giusto quando dovrò sostenere l’esame? Si, ovviamente sì, ma prima di imparare la domanda non era così assurda nella mia testa.
Andando avanti con gli anni, mi sono chiesto tante altre cose, come ad esempio come capire quando si è realmente d’accordo con un qualcosa che si legge e quando questa teoria non sia semplicemente spiegata bene, senza però che in realtà davvero ci convinca a pieno. O ancora, quando capire se la tesi che mi si sta esponendo sia corretta e condivisibile dal mio pensiero critico e quando questo invece non sia influenzato da chi me la sta esponendo, vocalmente o per iscritto, facendomi credere di essere d’accordo quando in realtà sia solamente plagiato. Questo è stato il cruccio più grande che mi abbia accompagnato durante le superiori, e poi anche successivamente.
Filosofia, portami via
Io ho frequentato un istituto tecnico, e come tale la filosofia era bandita, ma nel corso della mia vita ho incontrato qualcuno che invece mi ha indirettamente avvicinato a quella che oggi penso sia una materia importantissima almeno da sfiorare. E così, senza preparazione né indicazioni da adulti, mi sono avvicinato ad una serie di filosofi. In quel momento il dubbio fu davvero grande. Concordavo con alcune tesi solo perché stavo vivendo qualche situazione a cui riuscivo a ricondurla e quindi mi sembravano sensate perché davano ragione alle mie scelte? Ero così chiuso mentalmente che invece persone tanto illuminate plagiavano i miei pensieri semplicemente con uno scritto fatto in alcuni casi anche migliaia di anni fa? Tutto poteva essere in effetti.
La risposta, me la diedi da solo, iniziando a leggere libri di autori che venivano indicati, dagli addetti ai lavori, agli antipodi rispetto a quanto avevo letto fino a quel momento. E non solo, feci alcune ricerche anche sulla vita di quei filosofi, per capire quando e come erano vissuti, e quali esperienze avessero potuto fare. Allora lo feci solo per curiosità, per ampliare la mia conoscenza di qualche argomento. E mi accorsi che in effetti c’erano filosofi che mi convincevano ed altri che non erano nelle mie corde. Per la cronaca, parlando di filosofia “antica”, hanno vinto gli stoici.
Qualche tempo fa, ascoltando un podcast del Professor Alessandro Barbero, mi sono reso conto di aver fatto quello che lui, a distanza di anni, suggeriva essere l’essenza fondamentale della scuola. In questo audio, Barbero diceva era importante che gli insegnanti scegliessero gli argomenti giusti di cui trattare, ma ancora di più che riuscissero a fornire gli studenti di spirito critico. O meglio, suggeriva agli studenti che non basti capire o ricordare quello di cui si parla, ma anche il perché se ne parla e chi me ne parla. Vado a memoria, per cercare di rendere il suo discorso: “Capire e ricordare di cosa si parli è importante tanto quanto il capire perché chi me ne parla, me ne sta raccontando in quel modo”.
Se è vero che la verità è una cosa quanto mai astratta e complessa da indagare, capire perché qualcuno sostenga un punto di vista e perché lo esponga in un modo e non in un altro, è fondamentale non solo per capire se anche io condivido quel pensiero, ma anche quale sia la motivazione che spinge questa persona a parlarmene. Un concetto che in epoca di proliferazione di fake news e di persone che credono che la terra sia piatta, ha ancora più valore. Ed evidenzia quando la scuola e la cultura in generale abbiano fallito in questi ultimi decenni.
È grazie a questa scintilla comunque, che oggi mi trovo le bacheche social intasate da cose decisamente assurde. Quando sento una notizia che mi incuriosisce, cerco di approfondire, anche andando in direzioni opposte alle consuete, per cercare di capire se davvero quanto letto sia corretto e se davvero non vi sia altro dietro al racconto che mi è stato proposto. E magari tento anche di capire chi sia colui il quale me lo abbia proposto e perché lo abbia fatto. Questa sembra una domanda inutile, ma non lo è sempre: se qualcuno vi propone una storia e non un’altra, dietro c’è sempre un motivo. A volte può essere banale, conosce quella storia e non un’altra, era presente in un dato appuntamento e non in un altro, eccetera, altre volte quella storia è stata scelta per un motivo. Avere una pur vaga idea di questo motivo, a volte, aiuta a capire la solidità stessa della storia.
Il Professor Negrini
Devo però ammettere che quasi certamente, una parte di questa mia capacità, deriva davvero dalla scuola. Negli anni in cui cercavo maggiormente di dare risposta a questa serie di interrogativi, ha incrociato la mia strada un professore particolare. Si chiamava Stefano Negrini, insegnava meccanica ed era un ex militare. Le interrogazioni erano sempre particolarmente difficili, con esempi presi dalla realtà, e con compiti in classe che altro non erano che vecchi esami di stato.
Un esempio di interrogazione poteva essere questo: “Dimensioniamo il braccio e il gancio di quella gru che vediamo dalla finestra, sapendo che dovrà sollevare massimo cento quintali”. Ecco, da lì in avanti, l’interrogato doveva arrangiarsi. Stessa cosa per i compiti in classe; come faceva un ragazzo di terza superiore a concludere un esame di maturità? Apparentemente, in entrambe le situazioni, lo studente non aveva abbastanza informazioni. E in effetti a noi pareva così allora, ma in realtà, non era del tutto vero. Se ti serviva un dato che pensavi di non avere, glielo potevi chiedere. Se la domanda era sensata ottenevi la risposta. Allo stesso modo, potevi utilizzare libro, appunti e calcolatrice. Nel compito in classe, potevi anche chiedere aiuto ai compagni addirittura.
Il professor Negrini partiva da un assunto semplice: se la scuola ti deve fornire gli strumenti per affrontare la vita reale, deve darti i mezzi per capire di quali strumenti hai bisogno. E così lui ti metteva davanti ad un qualcosa che potenzialmente avrebbe potuto centrare con un lavoro da perito meccanico, e tu dovevi capire quali strumenti ti servissero per risolverlo. Non importava sapere questa o quella formula a memoria, secondo il buon professor Negrini, era necessario sapere che ti serviva quella formula. Questo è il vero problema a cui sei davanti nella vita reale: capire di cosa hai bisogno per risolvere un problema o per capire quello che ti succede attorno. Non penso abbia idea di quante volte, dopo aver preso la maturità, io lo abbia ringraziato mentalmente.
Pensiero Critico
Fin da piccolo ho avuto una testa con più domande che risposte, dicevamo, è credo che in parte sia una maledizione, perché a volte, detta fuori dai denti, non pensare è molto meglio. Credere a tutto e pensarsi al di sopra del prossimo, a volte aiuta a vivere meglio. Ma non posso non farmi l’ennesima domanda: dove va a finire un mondo di persone che hanno sempre e solo certezze? Convivere e condividere, non vuol dire imporre, e le certezze spesso devono essere imposte a coloro i quali non sono allineati, soprattutto se chi sostiene queste certezze, non è in grado di esporle se con la forza.
A volte addirittura mi trovo a sostenere tesi differenti dalle mie per cercare di capire quali siano i punti di vista che mi sfuggono, in modo che il mio interlocutore possa suggerirmi una lettura che a me è sfuggita. Poi chiaro, anche io come tutti mi faccio un’opinione e magari provo a sostenerla, ma sono convinto che sia importante cercare il più possibile di osservare la medesima situazione da più punti di vista. E poi certo, ci sono cose su cui però non riesco ancora ad ammettere le scale di grigio… a volte una cosa è davvero bianca o nera, non è possibile pensare che vi siano sempre vie di mezzo.
Ancora oggi comunque, mi chiedo come si possa dire di essere in grado di avere un pensiero critico e mi chiedo se davvero io sia arrivato realmente ad averlo. Mi chiedo anche quale diavolo di intelligenza si debba avere per padroneggiare l’ermeneutica e l’esegesi di un qualunque testo scollegato dal nostro contesto più intimo e vicino. Come possiamo essere certi di capire cosa pensava una persona vissuta in un tempo in cui valori e sentire comune erano completamente difformi dai nostri? E andando ancora più nel dettaglio, vista la mia passione per l’archeologia, come diavolo fanno a leggere con certezza gli strati e interpretare oggetti e posizioni anche di singoli piccoli fori del terreno?
A volte, quando mi perdo in questi ragionamenti penso che forse, se non avessi spirito critico e intelligenza, non mi farei queste domande. Altre volte invece, penso a quanto sono stupido per non avere le rispose che invece, un qualunque “zio Mario” o una qualunque “zia Maria”, sbandierano quotidianamente su internet.